Il Romanzo del Tempo

Nel 1905 un tecnico dell’ufficio brevetti di Berna con la passione dell’astrofisica – più noto alle cronache con il nome di Einstein – pubblicò un articoletto Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento; una teoria che, di lì a breve, sarebbe stata ribattezzata col nome di “relatività ristretta”. Senza addentrarci in formule e disquisizioni fisico-matematiche (inaccessibili ai più), basterà qui dire che quel breve saggio squarciò per sempre il velo di Maya su uno dei segreti più intimi e gelosamente conservati dall’Universo. Non solo “spazio” e “tempo” si sono rivelate essere due facce di un’unica medaglia, ma si è dimostrato che un’idea di “tempo universale”, quello stesso tempo universale su cui si sono interrogati i più autorevoli saggi fin dagli albori della filosofia, non ha alcun senso.

Da quell’avvenimento sarebbe mutato per sempre, oltre alla promettente carriera del giovane Albert, l’intero modo di concepire la fisica. Ma non solo. Quelle riflessioni – che una brutale banalizzazione potrebbe riassumere nella massima “tutto il tempo è relativo” – si sono radicate anche in altre correnti del Pensiero, che poco o nulla hanno a che spartire col mondo scientifico. Tra queste, la Letteratura. E nel ricchissimo mare magnum di romanzieri e poeti novecenteschi, il (nuovo) tema del “tempo” accarezzò con favore il genio di un ormai navigato scrittore e saggista tedesco: Thomas Mann. Ironia della sorte, si trattava di un connazionale di Einstein, con il quale condivise, tra l’altro, pure la medesima terra d’esilio durante gli anni del regime – Gli Stati Uniti – nonché la più prestigiosa onorificenza mondiale.

“Il tempo è relativo” si abbozzava poco sopra. Ma in che senso? Il Nobel per la fisica (1921) lo ricollegava ai campi di gravitazione e, svuotandolo della sua storica natura di pilastro di obiettività, lo ridipinse quale mutevole variabile al servizio di un’altra misura: la velocità (della luce). Un’interpretazione più squisitamente quotidiana e d’umana comprensione, invece, è portata a leggere la suddetta “relatività” quale sinonimo (non richiesto) di “soggettività”. Quando ci si diverte il tempo vola recita un arcinoto adagio popolare.

Albert Einstein e Thomas Mann all’Università di Princeton nel 1938

Ne La montagna incantata (1924), corposo romanzo di iniziazione in realtà originariamente progettato come breve riscontro umoristico de La morte a Venezia (1912), Thomas Mann, oltre ad toccare con enfasi temi sempreverdi quali malattia, amore e morte, si lancia in una profonda ed attenta esegesi del tempo. Per mezzo della mente e della bocca del borghesuccio Hans Castorp, Il futuro Nobel per la letteratura (1933) ammira e indaga il suo scorrere, ora lento e ora veloce, ma pur sempre inesorabile, il modo in cui esso viene comunemente percepito, la sua misura e, infine, i suoi rimedi.

L’Autore tedesco confuta la massima universale del tempo che vola o, per meglio dire, vi apporta dei radicali correttivi. Si pensi ad un intrattenimento nuovo o comunque interessante: qui l’impressione dello spettatore sarà che tale attività “faccia passare” il tempo, ossia lo accorci. Al contrario – prosegue Thomas Mann – è generalmente ritenuto che la noia rallenti lo scorrere del tempo, o addirittura lo ostacoli; esattamente quel che accade a un ipotetico soggetto in grado di spostarsi ad una velocità prossima a quella della luce, secondo la teorica di Einstein.

È proprio qui che, a detta dello Scrittore, si inserisce l’inghippo: occorre infatti procedere con un importante ed innovativo distinguo a seconda del quantum di tempo osservato. «Può darsi che la monotonia e il vuoto allunghino e rendano “noiosi” il momento e l’ora, – puntualizza Mann – ma i grandi e grandissimi periodi di tempo li accorciano e volatilizzano addirittura fino all’annullamento. Viceversa un contesto ricco e interessante può certo abbreviare e sveltire l’ora e magari anche il giorno, ma portato a misure più vaste conferisce al corso del tempo ampiezza, peso, solidità, di modo che gli anni pieni di avvenimenti passano più adagio di quelli poveri, vuoti, leggeri che il vento sospinge e fa dileguare».

Frontespizio della prima edizione de La montagna incantata (1924)

Minuti e ore seguono logiche non solo diverse, ma addirittura opposte a quelle su cui si fondano lassi temporali ben più importanti, ossia quelli che durano anni o vite intere. A ben vedere, allora, non si indaga più una definizione di tempo, ma solo definizioni di porzioni di tempo. È dunque necessario prima misurarlo – colla clessidra o col calendario (peraltro in barba a tutto quello che ci ha pazientemente spiegato il genio della fisica) – e, così ritagliato, si potrà finalmente realizzare che questo accelera o rallenta, a seconda di come e cosa si vive.

Ma parlare di porzioni di tempo, si badi bene, comporta una necessaria “umanizzazione” dello stesso, quasi una sua degradazione in numeri ed avvenimenti. Difatti, «il tempo non ha censure, non ci sono bufere o squilli di trombe al principio di un nuovo mese o anno, e persino a quello d’un nuovo secolo siamo soltanto noi uomini a sonare e sparare».

La montagna incanta è stato definito dall’Autore un “romanzo del tempo” anche per un’altra ragione. Hans Castorp non solo riflette sul tempo, ma si ritrova a vivere e respirare in una realtà che sta al di fuori del tempo, con i suoi ritmi, i suoi segreti e i suoi incanti. Il tempo puro – come spiegherà lo stesso Thomas Mann in una lezione all’Università di Princeton nel 1939 – non è solo oggetto dell’esperienza dell’eroe, ma è esso stesso soggetto e viene trattato in e per se stesso.

«Lunghi periodi di tempo, se non si interrompe l’uniformità, si restringono in modo da far paura; se un giorno è come tutti, tutti sono come uno».

Thomas Mann, La montagna incantata