Era l’ottobre del 1963 quando, a Palermo, dei giovani intellettuali si unirono per dare vita al Gruppo 63, alla base delle Neoavanguardie italiane.
In comune fra loro vi era il rifiuto della società neocapitalista e di tutto ciò che ne derivava – in primis il consumismo di massa – e del linguaggio della poesia italiana novecentesca, ancora troppo legato a logiche ermetiche e crepuscolari. Per sottolineare questa vanità della vita comune, all’interno dei loro scritti, utilizzavano sequenze di “non-significanza”, cioè un inanellamento di parole/frasi senza un apparente significato logico.
Ma, venendo a noi, come mai si è scelto il nome di “Circolo 23”? L’intento – unitamente a quello di non abbandonare una dicitura che oramai da quasi sei anni ci accompagna – sarebbe quello di ricollegarsi al fine principale delle neoavanguardie, avendo esse sempre voluto sottolineare la futilità della società capitalistica che troppo si basava (e tuttora si basa) sulla vendibilità di un prodotto più che sul suo intrinseco contenuto. Ciò è ravvisabile anche nel mercato moderno, dove i libri che più vendono e le canzoni più ascoltate sono sempre caratterizzate da un linguaggio facile, immediato, che non necessita di ragionamenti o di pensieri troppo complessi: tutto è ricondotto a un unico e facile significato subito ravvisabile.
Lo scopo ultimo è dunque quello di richiamare alla mente delle persone coscienti il valore dell’attacco alla società consumistica, portando però, al contempo, esempi di come ci siano ancora opere letterarie, artistiche e musicali che non si basano solo ed esclusivamente sulla vendibilità. Insomma, l’arte è ancora viva e vegeta là fuori, basta cercarla (magari in nostra compagnia)!
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