Il compito dell’artista secondo Giovanni Papini

Tutta l’arte è perfettamente inutile e sostanzialmente fine a se stessa? Niente di più falso, parola di Giovanni Papini.

Il filosofo fiorentino, nella prima metà del Novecento, cuce un’affascinante teoria diametralmente opposta a quella notoriamente abbracciata dai più illustri esteti. Più in particolare, Papini sostiene che l’artista non possa dirsi scevro da qualsivoglia dovere, ma, al contrario, che egli sia chiamato a rispondere di una funzione vitale verso il popolo. Ribaltando una volta per tutte l’idea dell’artista come uomo sopra le regole e la morale, si osserva che, paradossalmente, egli è in realtà «il meno libero degli uomini».

Nell’addentrarsi nel tema, l’Autore ricorre alla metafora che dà il titolo alla sua opera: l’artista è colui che è investito de La corona d’argento (1941). «La corona di ferro – spiega lo Scrittore nella prefazione – è destinata ai re guerrieri, ai conquistatori della terra; la corona d’oro è per i santi, per i conquistatori del cielo. Tra l’una e l’altra e quasi ad egual distanza tra il cerchio della potenza e quello dell’obbedienza, vedo splendere la corona d’argento degli artisti e dei poeti». L’immagine evocata non è volta ad instaurare una gerarchia tra le figure richiamate, ma piuttosto evidenza un’analogia di fondo: un imprescindibile ufficio, una missione sociale di cui devono poter beneficiare tutti i consociati.

Ma cosa succede quando l’artista o il poeta rifugge tale responsabilità? Semplicemente tradisce la propria natura, una natura di portatore di luce e di gioia e di innalzatore dello spirito.

Muovendo da tali premesse, il Papini fornisce una chiave di lettura di quelle ultime ed eccentriche espressioni dell’arte contemporanea, timide anticipazioni di quella che verrà poi battezzata come arte moderna. Si tratterebbe – a detta dello Scrittore – nientemeno che di “trovate cerebrali”, buone soltanto a celebrare il genio del momento, ma estremamente povere e infeconde per la collettività. Queste nuove forme “artistiche”, infatti, esprimono concetti che straniano dalla vita vera, dagli ideali, dai desideri, dagli amori e si traducono in una pura astrazione, spesso ingabbiata in forme asettiche e geometre gelide.

«L’arte, insomma, non riuscendo ad essere sovraumana, è divenuta inumana, disumana».

Giovanni Papini, La corona d’argento