Il Divin Marchese: un’analisi al di là della leggenda nera

Donatien-Alphonse-François, marchese e conte de Sade, è conosciuto più per i termini e le aggettivazioni derivanti dal suo nome di famiglia (sadismo, sadico..), inerenti – la definizione è enciclopedica – una commistione di violenza e sessualità spesso deviata e con esiti […] grotteschi e surreali che per la sua effettiva produzione letteraria – che non si riduce certamente a Le 120 giornate di Sodoma, peraltro opera incompiuta – negli ambiti più diversi (lambendo financo le produzioni saggistiche e teatrali) o per le sue attività di militare e politico.

Nato a Parigi il 2 giugno del 1740, apparteneva a nobil schiatta, sia da parte paterna che materna: prima di lui, il principale esponente della famiglia – dall’antichissima nobiltà – fu Jacques-François-Paul-Aldonce de Sade, suo zio paterno, abate e letterato che, compilando l’albero genealogico della propria casata, lo fece risalire fino a quella Laura de Noves – moglie del conte Hugues III de Sade – cantata dal Petrarca del Canzoniere; la madre, Marie Eléonore de Maillé de Carman, appartenente al ramo Condé della famiglia reale di Francia, i Borbone, era inoltre nipote del cardinale Richelieu. Il futuro Divin Marchese, unico erede della famiglia, poiché i genitori si dovevan trattenere per lunghi periodi fuori dalla Francia, essendo suo padre – il conte Jean-Baptiste de Sade – ambasciatore a Colonia e dovendolo seguire la moglie in tutti gli spostamenti, venne inizialmente cresciuto dai nonni – il nonno paterno e la nonna materna –, successivamente passò sotto la responsabilità di alcuni fidati domestici di famiglia e, dopo essere stato conteso da tutte e cinque le zie paterne – una sposata, due monache semplici e due badesse – risiedette presso il già citato zio abate, personale amico di Voltaire nonché dedito ai piaceri del libertinaggio, per i quali fu, molto probabilmente, l’iniziatore del giovane nipote.

Destinato alla carriera militare, com’era ovvio per l’appartenente ad una famiglia della sua genìa, divenne sottotenente del Reale reggimento di fanteria nel 1756; l’anno successivo alfiere del reggimento dei Carabinieri del Conte di Provenza e prese parte alla Guerra dei Sette Anni (1756 – 1763) contro la Prussia, distinguendosi anche positivamente in talune azioni, ma altresì rendendosi presto conto che la vita da caserma non faceva per lui: studente dai 10 ai 16 anni presso il Lycée Louis-le-Grand di Parigi, retto dai Gesuiti, ha modo di appassionarsi alla filosofia, alla storia, ai racconti di viaggio e alla lirica trobadorica; si dedica alla pittura, alla scultura, allo studio delle lingue, apprendendo in maniera più che buona inglese, tedesco, italiano e provenzale; ma, soprattutto, sceglie di seguire sempre e comunque la strada indicatagli dal piacere, ovunque essa lo porti!

La questione da attenzionare sopra tutte è quella inerente la “preparazione” del Divin Marchese: egli non fu, infatti – o perlomeno non solo -, come spesso e semplicisticamente viene riportato, un deviato, autore di opere dalla tematica deviata contenenti deviazioni, bensì un uomo culturalmente calato nella temperie della sua epoca, per quanto decidette certo di occuparsi di tematiche borderline. Egli può essere addirittura considerato alla stregua dei philosophes che egemonizzavano la scena culturale – e non solamente parigina o francese – del suo tempo; Gianni Nicoletti (1924-2017), tra i maggiori francesisti italiani così esplica – in una introduzione alla seconda edizione italiana Newton Compton de Le 120 giornate di Sodoma, che ha visto la luce nel 2018 – il concetto: «L’impulso catalogico di Sade, non lontano (non sembri irrispettoso) dalla volontà sistematrice dell’enciclopedismo, è uno sforzo organizzativo insuperato a tutt’oggi in tale materia». Insomma: ci furono gli enciclopedisti tout court, capeggiati dai buoni Diderot e d’Alembert, che si occuparono dell’organizzazione di (quasi) tutto lo scibile umano; ad integrare quel “quasi” ci pensò il nostro cattivo marchese, che catalogò nei suoi scritti devianze, pulsioni, tendenze aggettivabili come “animalesche” ma provate da esseri umani.

Alcune illustrazioni erotiche commissionate da Donatien-Alphonse-François

Chiaramente, non vuole essere questo scritto un’assoluzione a tutto tondo per il Sade: è chiaramente riportato che il marchese i suoi buoni guai con la giustizia li ebbe: il primo, a fine ottobre 1753, cinque mesi dopo le nozze con Renée-Pélagie Cordier de Launay de Montreuil, figlia di un ricchissimo magistrato – matrimonio di comodo, voluto più dal padre del nostro che dai due sposi, tanto più che D.A.F. de Sade era innamorato, ricambiato, della contessina Laure-Victoire-Adeline de Lauris, di antica casata provenzale, ma Sade padre non aveva intenzione alcuna di rinunziare alle ricchezze dei de Montreuil: soprattutto il figlio, assiduo frequentatore di bische e bordelli, ne avrebbe beneficiato -: una certa Jeanne Testard, prostituta, accusò il marchese di averla tenuta prigioniera per giorni e di averla sottoposta a giochi blasfemi e dissolutezze sfrenate; il giovane de Sade venne quindi arrestato e condotto nel carcere di Vincennes, ove permase per quindici giorni; fu liberato grazie al diretto interessamento della famiglia della moglie, ma gli venne imposto di non lasciare la sua residenza (il castello di Échauffour, in Normandia) senza il permesso reale. A partire da quell’esperienza, il marchese passò – intervallati da brevi o brevissimi periodi di libertà – circa trent’anni tra le carceri di Francia, collezionando una serie impressionante di denunce sulla falsariga di quella della Testard, anche se non è dato sapere quanto veridiche o, piuttosto, spinte dalla volontà di lucrare sulle sorti di un personaggio così sui generis (tanto più che principiò, a un certo punto, la stesura delle sue opere, e fu ovviamente posta attenzione, da parte delle autorità, solamente su quelle di stringente tematica sadiana). Il Nicoletti tende a difendere il protagonista dei suoi studi, affermando:«Se la psicopatia del Marquis de Sade è […] irrefutabile, non si tradusse però in azioni di grave rilevanza penale, bensì in idee e intenzioni».

Così come Talleyrand – il maestro del camaleontismo politico – si mantenne sempre sulla breccia dell’onda durante i susseguentisi periodi politico-sociali in Francia tra la fine del Settecento e i princìpi del secolo successivo (monarchia borbonica, governi rivoluzionari, governo consolare e poi imperiale di Bonaparte, monarchia restaurata), così Sade ebbe l’occasione di provarne i differenti sistemi carcerari. Inviso alla sua classe sociale di provenienza principalmente per le frequentazioni “basse” e le risapute particolari tendenze e passioni lubriche, tra le quali la bisessualità e la sodomia (che poi pure personaggi ben più in vista di lui ne provassero di uguali od altre, poco importava: bastava che non si sapesse in giro), allo scoppio della Rivoluzione iniziò a manifestare appoggio ai rivoltosi – anche se diversi studiosi tendono a presentare il Sade come un rivoluzionario “interessato”: di certo perché beneficiò dell’assalto alla Bastiglia, dov’era rinchiuso dal 1785 e dove principiò la stesura, mai portata a termine, delle 120 giornate di Sodoma – ma purtroppo la fortuna continuò a non arridergli: inizialmente membro di tribunali o “camere” rivoluzionarie assolutamente secondarie, malvisto dall’area più moralmente integerrima dei giacobini (capeggiata dall’Incorruttibile Maximilien de Robespierre) perché nobile e tacciato di devianze mentali (ma, ci spingiamo a dire che per i giacobini fosse ben più grave la prima “accusa”), passò la maggior parte del periodo del Terrore in galera. Inviso personalmente a Napoleone – il còrso aveva il terrore che la grandeur francese che aveva intenzione di riportare ai fasti del glorioso passato fosse insozzata da un personaggio di tal fatta -, durante l’epoca consolare si compì definitivamente il destino del Divin Marchese: in seguito alla pubblicazione del romanzo Juliette, ovvero le prosperità del vizio (1801), venne dapprima imprigionato, poi tradotto nel manicomio criminale di Charenton, dal quale non uscì più, esalandovi l’ultimo respiro il 2 dicembre del 1814, all’età di 74 anni.

Fotogramma tratto dal film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, tra i riscopritori di D.A.F. de Sade nel XX secolo

Qui ebbe la fortuna – non sembri esagerato affermarlo – di essere seguito dallo psichiatra monsieur de Coulmier, il quale impostò per il Sade una terapia per quei tempi avanzatissima, affidandogli la direzione del piccolo teatro interno allestito al fine di tenere impegnati i degenti. Ebbe dunque modo di rimettere mano e di rappresentare – parzialmente o per intero – diversi suoi lavori che era stato obbligato a mettere da parte, e molti dalla tematica assolutamente discostantesi da ciò che ci si è abituati ad aspettarsi dal Marquis de Sade: ci sembra il caso di almeno citare Gli antiquari (l’unica ufficialmente datata dal marchese, 1790), poi Il filosofo autoproclamato (dalla tematica ironica e brillante, il cui manoscritto originale – non datato – rivide la luce nel 1967) e un lavoro di tematica storica, Jeanne Lainé, ovvero L’assedio di Beauvis, riportato alla luce nel 1970. Lo avevamo del resto anticipato: la produzione letteraria del nostro non si può certo considerare limitatamente alle ben note tematiche che da lui presero nome: mantenendoci sullo stile brillante già toccato col Filosofo autoproclamato, citiamo – e limitiamoci a quello, giacché un elenco completo e ragionato è pressoché impossibile – ciò che è ritenibile l’esemplificazione del Sade umorista, il racconto Il signore di Fontanis (conosciuto anche come Il presidente burlato o Il giudice beffato), contenuto nel volume miscellaneo approntato dall’autore stesso nel 1788 titolato Historiettes, Contes et Fabliaux, dove il nostro si scaglia – col gusto che ben gli comprendiamo – contro l’organizzazione della giustizia francese. Tra le opere purtroppo poco conosciute del nostro, citiamo ultima il Dialogo tra un prete e un moribondo (1782), ove – in pieno spirito illuminista e anticlericale – un dei protagonisti cerca di convincere l’altro dell’inutilità di una vita pia, scagliandosi contro l’illogicità e l’innaturalezza dei dogmi della religione cattolica. Ciò non toglie, ad ogni modo, che Sade sia conosciuto – e temiamo si continuerà a farci bastare queste – per un pugno di opere: le già citate 120 giornate di Sodoma e Juliette, le due Justine (Le disavventure della virtù e Le sciagure della virtù, rispettivamente 1791 e ’99) e Aline e Valcour ovvero il romanzo filosofico (1793).

Durante la permanenza in manicomio, gli fu vicina la giovane Marie-Costance Renelle, giovane attrice che aveva avuto una parte nella di lui opera teatrale Le suborneur (Il seduttore), messa in scena nel 1792 e che attirò quasi subito l’attenzione – in senso negativo – dei giacobini. Ma gli anni di reclusione furono anche quelli in cui, piano piano, il marchese vide spegnersi ciò che era stata la – poca“normalità” nella sua vita: l’adorato primogenito, Louis-Marie, che aveva optato per la carriera militare, venne ucciso – il 9 giugno 1809 – presso Avellino (era al seguito delle truppe napoleoniche preposte alla difesa del Regno di Napoli istituito nel 1805) da irregolari napoletani anti-bonapartisti. Poco più di un anno dopo morì la marchesa sua moglie (i due si erano ufficialmente separati successivamente all’uscita del Sade dal carcere della Bastiglia).

Nel testamento che approntò qualche giorno prima di spirare, D.A.F. de Sade richiese esplicitamente di non avere tomba – voleva che il mondo si dimenticasse di lui – e rifiutò i funerali religiosi; venne esaudito solo parzialmente, infatti, dopo il rito funebre (comunque religioso) venne sepolto nel cimitero di Charenton in una tomba – di cui si è successivamente persa memoria – senza nome né date. Ma il mondo non si dimenticò di lui: peccato però lo ricordi solamente per una manciata di sue opere.