Felice Cavallotti: passare alla storia in punta di sciabola

Il 6 marzo 1898 si spegneva, a causa delle ferite riportate in seguito a un duello combattuto contro il deputato conservatore e direttore della Gazzetta di Venezia Conte Ferruccio Macola, l’onorevole Felice Carlo Emanuele Cavallotti, nume tutelare dell’Estrema Sinistra italiana post-unitaria. Sì, avete letto bene: un duello all’arma bianca alle soglie del Novecento; perché Cavallotti era così, aveva fatto proprie idee tra le più avanzate del suo tempo, ma nel cuore era rimasto sempre un cavaliere ardente. Addirittura, nonostante fosse nato nel 1842, con abile stratagemma era riuscito a modificare la propria data di nascita sul documento d’identità per poter partire assieme a quella che, non proprio debitamente, viene definita la seconda fase della spedizione dei Mille, ossia l’entusiastico affluire di volontari a combattere per l’Italia in seguito allo sbarco dei Mille (che per la verità furono 1088) “ufficiali” a Marsala l’11 maggio 1860; nato a Milano il 6 novembre dell’anno sopra indicato, non aveva dunque ancora diciotto anni, e la maggiorità si raggiungeva allora al compimento del ventunesimo anno d’età.

E quello non fu l’unico coup de theatre per cui lo si ricorda: infatti, poco tempo dopo aver principiata l’attività politica, rinunziò pubblicamente a due dei suoi nomi, Carlo ed Emanuele, troppo “savoiardi” per identificare un convinto repubblicano come lui; da allora in poi sarebbe stato semplicemente Felice Cavallotti, “il Bardo della Democrazia” (bardo perché il nostro si dilettava pure nella composizione di liriche e drammi in metrica classica, come il carduccianesimo che allora imperava imponeva).

Il suo ingresso in Parlamento data 1873; andava per i 31 anni e sempre si mantenne orgogliosamente all’opposizione: certo rispetto ai governi della Destra storica, ma anche a quelli di Sinistra che, inizialmente guidati da Agostino Depretis, contro il cui trasformismo Cavallotti pronunziò i suoi discorsi più memorabili, si iniziarono a susseguire in maniera più o meno regolare a partire dal 1876. Per completezza d’informazione, non si deve qui omettere che il deputato radicale, da vero signore quale sempre dimostrò di essere, seppe tenere splendidamente divise inimicizia politica e rapporti personali; prova ne è la sincera amicizia che per anni lo legò proprio ad Agostino Depretis: acerrimi nemici nelle stanze dei bottoni, buoni amici fuori da queste; sono ancora conservate alcune lettere, parte della corrispondenza tra i due, ricche di bonarie prese in giro reciproche e arguti motti di spirito.

E però, l’apice della genialità cavallottiana la si riscontrò in occasione del giuramento alla Corona (obbligatorio in ogni monarchia che riconosca la legittimità delle Camere) che il nostro dovette pronunziare una volta risultato eletto per poter prendere ufficialmente posto sul suo scranno di deputato: come fare in modo che l’accesissima fede repubblicana che lo animava non ne risultasse tradita? D’improvviso, l’illuminazione: Cavallotti pronunziò tranquillamente il giuramento regio, del resto si trattava semplicemente di una formalità alla quale si doveva obbligatoriamente prestare per poter condurre la propria battaglia dai banchi della Camera – spiegò in un discorso ai suoi elettori; quello che egli considerava veramente importante era il giuramento fatto alla propria coscienza e a coloro che gli avevano dato fiducia e cioè di non riconoscere altro sovrano che non fosse la Nazione: quando si dice la realpolitik!

Cavallotti, che divenne leader incontrastato dello schieramento radicale ben prima della morte del “fondatore” dell’Estrema Sinistra italiana Agostino Bertani, sopravvenuta nel 1886, si profuse con notevole impegno nella formazione di cartelli comuni delle sinistre in modo da poter avere più facilmente ragione degli schieramenti moderato e conservatore: trattasi della Lega della Democrazia (1879) e del Fascio della Democrazia (1883), entrambi alleanze (molto deboli, dal momento che queste “coalizioni” durarono poco più di un anno) tra radicali, repubblicani e i primi socialisti eletti al Parlamento italiano, sebbene il PSI ancora dovesse vedere la luce; le incomprensioni più forti si ebbero in entrambi i casi tra radicali e socialisti: sebbene il progressismo dei primi apparisse estremista a gran parte dello spettro politico italiano, per i secondi si trattava semplicemente dell’ennesima manifestazione di una sinistra borghese interessata essenzialmente al miglioramento delle condizioni e all’incremento dei diritti (in termini di accesso previdenziale e al diritto di voto) per la piccola borghesia o, al massimo, per lavoratori dipendenti ma specializzati, e completamente muta, invece, sulla denunzia delle condizioni in cui versava la stragrande maggioranza della classe operaia. Oggettivamente, i socialisti non avevano torto: la lotta di classe era tematica totalmente aliena alla forma mentis dei radicali italiani, illuminati sì, ma prima di tutto borghesi (nel caso di Cavallotti, che mai mancò peraltro di pronunciarsi contro “i disordini causati dal socialismo”, ricchi borghesi!); borghesia innanzitutto della mentalità, prima che per estrazione sociale.

Il duello Cavallotti-Macola, L’Illustrazione Italiana, 13 marzo 1898

Al di fuori dell’attività politica, che pure lo impegnava a tempo più che pieno, Cavallotti aveva due passioni, già entrambe menzionate più o meno direttamente: la composizione lirica e drammaturgica e la scherma; quest’ultima lo porterà alla morte. Il suo carattere non certo riflessivo, ponderato e incline al compromesso, lo portò a farne uso per risolvere, in maniera donchisciottesca, i parecchi contenziosi che aveva aperti con avversari politici e/o dell’altro mondo che frequentò con discreto successo, quello del giornalismo: egli fu infatti apprezzato articolista per il Gazzettino rosa, che potremmo definire l’organo dell’Estrema Radicale italiana. A partire dagli anni ‘90 dell’Ottocento bersaglio delle taglienti lingua e penna cavallottiane divenne dunque Ferruccio Macola, il quale, sul giornale da lui diretto, trattò ampiamente, e per la verità arricchendo la vicenda di particolari sì gustosi ma palesemente inventati, di una presunta querela che il deputato lombardo avrebbe ricevuto da un avversario; querela che sempre il diretto interessato negò di avere ricevuta, non limitandosi però a questo, bensì dando pubblicamente del “mentitore al Macola, il quale, di carattere simile a quello del Cavallotti, non se ne stette certo zitto ed anzi rincarò la dose. Il deputato radicale dunque, per evitare questi continui botta e risposta da colonne di giornali e discorsi pubblici, ma sempre comunque a distanza, propose di chiuderla una volta per tutte sfidando il suo avversario a duello, benché ufficiosamente questa modalità di risoluzione delle contese fosse proibita, nel Regno, fin dal 1875. Il Macola, abilissimo schermidore anch’egli e – attenzione! – di vent’anni più giovane del suo concorrente, accettò.

La sfida si tenne nel giardino della villa della Contessa Cellere, presso cui Cavallotti stava a pensione, a Roma, nei pressi di Porta Maggiore, nel pomeriggio, dopo colazione. Al terzo affondo il direttore della Gazzetta di Venezia trafisse palato e carotide al suo avversario, il quale dopo avere perso conoscenza, si spense, soffocato dal suo stesso sangue, alle 15:30 di quel 6 marzo 1898. D’accordo ma, come scrisse in onore del lombardo il poeta e patriota Olindo Guerrini (1845 – 1916), che utilizzava allora lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti: “Con un colpo di spada o di coltello/non si uccide la Storia”. E Cavallotti la (sua) Storia la visse da protagonista assoluto.

Una curiosità, pure se non suffragata da prove certe: Cavallotti, negli ultimi suoi discorsi alla Camera dei Deputati aveva rivolto all’allora Primo Ministro Francesco Crispi pesantissime accuse di corruzione; malelingue affermarono essere stato proprio il Crispi ad avere armato, prima con la penna e poi con la sciabola, la mano di Ferruccio Macola.

Questa, per sommi capi, l’intensa vita di Felice Cavallotti, personaggio colpevolmente presto caduto nel dimenticatoio della storia d’Italia e invece, io credo, degno di esserne ascritto tra i protagonisti; ma già, come scrisse lui stesso nella Lettera agli onesti di tutti i partiti (1895): “Come si dimentica presto in Italia!”.