Umberto Grancelli, o della veronesità misteriosa

            

Dopo varie (ma giammai eventuali) dediche a Umberto Grancelli – qualche post introduttivo sull’autore e sui suoi svariati interessi e la presentazione di un suo scritto, Sulle origini del Baccanale veronese (prima apparizione, come articolo, 1951, ristampato dalle Edizioni della Vita Nova di Giovanni Perez nel 2016) il 15 febbraio scorso nel prestigioso contesto della sanmicheliana Porta Palio – è giunto finalmente il tempo di dedicarsi più compiutamente al personaggio, concentrandosi nello specifico sulla sua produzione prettamente libresca, la quale consta di tre titoli principali: Il piano di fondazione di Verona romana, Gli ominidi alla conquista del mondo e Il simbolo nella vita di Gesù.


E però è buona cosa far principiare il tutto da alcuni brevi cenni biografici, alcuni risvolti dei quali certo faranno meglio comprendere il percorso intellettuale che Grancelli scelse di battere. Egli nacque a Verona il 4 marzo del 1904 da famiglia che potremmo definire dell’intelligencija cittadina: il padre Floriano era infatti docente di Storia e Filosofia presso il Regio Liceo Scipione Maffei; la madre, Elena Simeoni, sorella nientemeno che di Luigi, storico tra i massimi esperti della Verona d’età comunale e signorile nonché docente di Storia medievale e moderna presso l’Ateneo bolognese. Ma figura di primo piano nell’educazione di Umberto e di suo fratello Luigi Grancelli fu senza dubbio lo zio paterno Michelangelo, prelato appartenente alla Congregazione comboniana, canonico onorario della Cattedrale, insigne studioso soprattutto di storia letteraria, docente presso il Seminario Maggiore cittadino e tra i fondatori e per lunghi anni direttore di quello che è tutt’oggi l’organo ufficiale della Curia veronese, il settimanale Verona Fedele. Evidentemente non del tutto apprezzato nelle alte sfere, Monsignor Grancelli, il quale – forse poco umilmente – per le sue benemerite attività si aspettava la nomina al seggio episcopale che fu di San Zeno, non ottenutolo, vuoi per ripicca, vuoi proprio per vendetta – comportamenti comunque entrambi poco confacentesi ad un uomo di Chiesa – prese a formare i due nipoti Umberto e Luigi in senso paganeggiante, gnostico, addirittura anticlericale, educazione che i due giovani entrambi seppero in seguito far fruttare, Luigi in senso più pragmatico, Umberto più intellettualmente.


Tornando a monte, l’opera di Umberto Grancelli della quale è possibile trattare un po’ più approfonditamente è la prima citata, Il piano di fondazione di Verona romana, stante soprattutto la sua maggiore reperibilità, essendo stata ristampata nel febbraio 2021 (dopo una prima ristampa datata 2006) dalle Edizioni della Vita Nova; essa, apparsa in prima edizione nel 1964 per le Edizioni di Vita Veronese ma basata su un precedente studio dell’autore, Il “mistero” di Verona romana (Edizioni Orione, 1946, che il nostro firmò utilizzando lo pseudonimo di Rethicus – talvolta nella versione “ufficiale” Rheticus -, rimando neanche troppo velato a quel Georg Joachim Rheticus, 1514-1574, matematico e astronomo austriaco), ha potuto vedere la luce, di fatto, grazie ad un articolo sempre del Grancelli datato 1955, L’orientamento di Verona romana, apparso sul mensile Vita Veronese (n°5/1955), che ha funto da trait d’union tra i due precedenti studi, quello più datato basato essenzialmente su osservazioni e studi di stampo scientifico-archeologico, quello “ufficiale” molto più versato nell’analisi simbolica. Due sono gli ordini tematici principali trattati nel testo, quello inerente l’orientamento solare della fondazione (verso una direzione ben precisa, e cioè quella dell’alba del solstizio d’estate e non secondo i punti cardinali, com’era più “nella norma”) – con i cosiddetti “schema a tre capanne”, cerchio mandalico e schema dei due allineamenti – e quello della cisterna (intendendo quella interrata nei pressi dell’ex caserma austriaca sul Colle San Pietro che, nei suoi studi, l’autore considera, con i pozzetti che la circondano/dovevano circondare, la miglior chiave interpretativa per la comprensione del processo fondativo della città). Collante di tutto ciò la visione grancelliana della sua Verona quale “autentico talismano, una rappresentazione del cielo sulla terra”, posizione supportata dal rimando a diverse tradizioni antiche – anche lontanissime tra loro nel tempo e nello spazio – secondo le quali l’esistenza di ogni cosa avrebbe concezione trinitaria: unitaria in essenza, duplice nella manifestazione (1+2=3). Risulterebbe controproducente trattare anche solo rapidissimamente di ciascuno di questi concetti, per mere questioni di spazio ma anche perché certo si finirebbe col non coglierne (perlomeno non di tutti) neppure le sfumature essenziali; rimando dunque a due altri testi, i quali possono fungere l’uno addirittura da ulteriore specifica di quanto trattato da Umberto Grancelli nel suo opus magnum, l’altro quasi da “prontuario” per cercare di accostarsi il meglio possibile a quanto scritto nel Piano di fondazione…: si tratta di Verona, origini storiche e astronomiche (Edizioni della Vita Nova, 2009) di Adriano Gaspani, astronomo che ha prestato servizio presso il celeberrimo osservatorio di Brera e di Nascita di una città tra architettura, mistica e metafisica (Edizioni della Vita Nova, 2012), scritto a quattro mani da Luigi Pellini – studioso indipendente tra i massimi esperti della figura di Umberto Grancelli – e Davide Polinari.


Il piano di fondazione di Verona romana – i cui “antecedenti documentali” vanno ricercati nel Ritmo Pipiniano, poemetto di VIII secolo in cui sono descritte le bellezze e i misteri di Verona e nella Civitas Veronensis Depicta, meglio conosciuta come Iconografia Rateriana (dal nome di Raterio, vescovo di Verona tra 931 e 933), considerata la più antica immagine della nostra città, l’originale della quale, che si trovava presso l’Abbazia benedettina di Lobbes, in Belgio, dove Raterio si era formato e dove tornò intorno al 944, dopo la brevissima parentesi episcopale a Verona, qualche anno di prigionia a Pavia, l’esilio nel comasco e la fuga in Provenza, è andata irrimediabilmente perduta, ma fortunatamente oggi possiamo godere, conservata in Biblioteca Capitolare, di una sua copia fatta realizzare nel Settecento da Scipione Maffei – è, cronologicamente parlando, il testo più recente dei tre citati in apertura di questo scritto; immagino sia però chiara la motivazione per cui ho ritenuto opportuno trattarlo per primo. Per quanto concerne gli altri due, procederò in senso ordinale.

Gli ominidi alla conquista del mondo, edito da Bompiani nel 1941, è saggio che sarebbe eccessivamente generico rubricare con l’aggettivo di “antropologico”, trattandosi di un’approfonditissima ricerca sull’evoluzione dell’uomo dalle origini dell’umanità fino alla fondazione di Roma basata sullo studio e sulla comparazione incrociata dei dati disponibili all’epoca nelle più svariate discipline utili al caso: ovviamente antropologia, ma anche geologia, biologia, paleontologia, archeologia e mitologia. Testo di difficilissima reperibilità, con un po’ di fortuna si può ancora rinvenirne qualche copia, specialmente nel circuito delle librerie antiquarie.


Dalla reperibilità altrettanto difficoltosa (per quanto abbia ricevuto, da persona valida e fidata, notizia che una copia ne è conservata presso la Biblioteca Civica veronese, come anche del saggio precedentemente citato), Il simbolo nella vita di Gesù (Editrice Europea, Verona 1947), è saggio nel quale l’autore sostiene l’origine arcaica e “pagana” di simboli e tradizioni proprie del cristianesimo, il cui portato di fede Grancelli considera il risultato di un “processo di conversione” di elementi primevi; un argomento che al giorno d’oggi non desterebbe poi questo gran scalpore, ma proviamo ad immaginare le reazioni che deve aver suscitato nella cattolicissima Verona dell’immediato secondo dopoguerra! Durissime furono infatti le critiche che l’autore dovette all’epoca subire dal mondo cattolico locale (anche in ciò degno erede dello zio Michelangelo).


Mosso da eccesso di zelo, ritengo d’uopo perlomeno citare una quarta opera, posizionabile a metà strada tra articolo lungo e saggio specifico: si tratta di Preistoria veronese (La Tipografica Veronese, 1940), contenente – tra le altre cose – studi prodromici a quanto Umberto Grancelli andrà a trattare ne Gli ominidi… e nel Piano di fondazione… .


Ebbene, dopo questo profluvio di date e titoli, notizie e concetti, una nota amara: perché dunque Umberto Grancelli, studioso dagli interessi molteplici e in vita accettato – per quanto con diverse riserve – tra la crème del mondo culturale cittadino (prova ne sia la sua collaborazione con la tuttora esistente “Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere”) è oggi autore misconosciuto oppure, quando conosciuto, evitato? Chi scrive non ritiene sia per gli argomenti – oggettivamente ostici – da lui trattati: vi sono autori che si dedicarono a studi altrettanto complessi e di difficile digeribilità, eppure vengono tutt’oggi ristampati da case editrici anche di primo piano! Purtroppo, ad entrare in gioco è la solita, dannatissima politica: il fratello maggiore (classe 1897) di Umberto, Luigi Grancelli, fu tra i personaggi politici maggiormente in vista della città di Verona durante il Ventennio, visibilità che gli valse la nomina a ultimo podestà di Verona fascista, in piena epoca salotina. Non si rese mai responsabile di atti criminali, anzi anche dagli oppositori al regime venne sempre descritto come “una brava persona”; seguace del fascismo primigenio, quello sansepolcrista, repubblicano e antimonarchico, socialisteggiante e anticlericale (stranissimo a dirsi, ma ecco qui il lascito intellettuale dello zio monsignore), la sua oggettiva estraneità alle pagine più oscure del Ventennio gli consentì di proseguire l’attività politica nel dopoguerra tra le file del Movimento Sociale Italiano, ricoprendo, per la Fiamma, uno scranno prima in consiglio provinciale, poi comunale veronese. Patì molto di più Umberto, vittima di una vera e propria damnatio memoriae per quanto indiretta: un’ennesima riprova di quanto e come, in Italia, ancora non si siano fatti i conti col proprio passato, soprattutto se recente. Altra motivazione che può considerarsi alla base del silenzio imposto cui è stata condannata la figura del nostro può riscontrarsi nella permanenza delle sue convinzioni paganeggianti e gnostiche, che senz’altro non gli hanno garantito – perlomeno non del tutto – “successo” e apprezzamenti in una città come la sua Verona, dalla così forte presenza cattolica anche nei vari ambiti della vita civile.


Umberto Grancelli morì a Verona il 1°marzo del 1970, senza eredi; la sua ricchissima biblioteca, della quale nessuno volle prendersi cura, presto andò dispersa, e con essa anche buona parte del lascito intellettuale di una mente autenticamente veronese che avrebbe certo meritato di più, anche se, per il futuro, il fiorire di talune iniziative fa ben sperare.