Dietro le sbarre: Dostoevskij e la condizione del detenuto

«Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione» pare avesse saggiamente ammonito quel filosofo parigino che risponde al nome di Voltaire (1694-1778). Parole illuminate, che trovano una perfetta eco nel romanzo dostoevskiano Memorie da una casa di morti (1861-1862). E in che cosa consista il carcere Fëdor Dostoevskij lo sa bene, dal momento che in gattabuia c’è finito per davvero. Ma procediamo per gradi.

Nell’aprile 1849, un già famoso (seppur indebitato) Dostoevskij viene arrestato per aver frequentato – ancorché per fini letterari – il circolo sovversivo e cospirazionista Petraševskij. Il Tribunale militare, ritenutolo soggetto particolarmente pericoloso, lo condanna alla pena capitale. Ma proprio il giorno dell’esecuzione, davanti ad un plotone già pronto a far fuoco, la pena viene commutata dallo Zar. Dostoevskij dovrà dunque scontare 4 anni di lavori forzati, seguiti da 6 anni di confino. Dopo essere stato trasferito da Pietroburgo al centro di smistamento per condannati di Tobol’sk, in Siberia, nel 1850 Dostoevskij giunge infine al campo penale fortificato di Omsk.

Qui inizia il dramma, ripercorribile sfogliando le crude pagine delle Memorie. Lo Scrittore vive in condizioni terribili, aggravate dal gratuito sadismo del comandante del campo, un anziano militare col vizietto di alzare il gomito, e dagli attacchi epilettici. Ma nella sofferenza, ecco compiersi un piccolo miracolo: Dostoevskij, intellettuale aristocratico “europeizzato”, viene a contatto con il vero popolo russo. E ne rimane significativamente colpito, a tratti affascinato. A poco a poco, nonostante difficoltà iniziali, riuscirà persino ad allacciare dei rapporti di amicizia, fondamentali in un contesto carcerario. Nel 1854 viene dimesso per essere arruolato come soldato semplice nella polizia di frontiera.

L’esperienza carceraria lo segna tanto profondamente che nel 1861-1862 pubblica a puntate le Memorie da una casa di morti su una rivista da lui fondata. Il titolo non lascia certo spazio ad interpretazioni circa la dura realtà del forzato. Eppure, sfogliandolo, non si può far meno di cogliere l’innata forza interiore di questi morti e realizzare (non senza meraviglia) che l’uomo è un essere in grado di adattarsi a tutto, compresi i peggiori soprusi. L’espediente, arcinoto al modo letterario, è quello della fictio del manoscritto ritrovato: si tratta del diario appartenente a tal Aleksandr Gorjančikov, aristocratico che, dopo aver ucciso la consorte, si ritrova a condividere le rigide condizioni di vita in un campo di prigionia siberiano. All’introduzione segue poi il racconto di un io-narrante che, eccezion fatta per il nome fittizio, è indubbiamente Dostoevskij in persona. Definirlo un romanzo potrebbe apparire allora un tantino riduttivo, perché scorrendo quelle pagine si respira una storia di vita vissuta, ove sono raccolte impressioni, riflessioni e aneddoti della prigionia.

“Siamo gente perduta” non fanno che lamentare gli sventurati laggiù. Ogni condannato ha un proprio ruolo e un proprio mestiere, senza del quale sa che si corromperebbe, mutando in bestia. Le condizioni degradanti del campo penale, poi, portano ad un continuum conflittuale non solo tra guardie e detenuti, ma anche tra quest’ultimi che, pur nella misera che li accomuna, si derubano l’un l’altro. Si può dire che a tenere vivi quei dannati sia una speranza di “resurrezione”. Un po’ come la vita del credente è guidata e sorretta dalla fede nella vita ultraterrena, così l’esistenza dell’internato è tenuta accesa da un lume: il miraggio di tornare alla libertà, anche quando la condanna recita “lavori forzati a vita”.

L’origine nobiliare (il titolo viene rimosso quale pena accessoria) costa a Gorjančikov-Dostoevskij non poca fatica a relazionarsi con gli altri. Ben diverse erano infatti le afflizioni sentite: privazioni morali e culturali, per lo Scrittore; tormenti prettamente fisici, per gli altri. Eppure, nonostante le marcate diversità, l’Autore esce come purificato da quest’immersione d’umiltà. E sperimenta un concetto ancora (troppo) sconosciuto di uguaglianza sociale, arrivando a enucleare un significato e un valore di dignità umana con un anticipo d’un secolo abbondante rispetto al pensiero allora dominante. «Il detenuto da solo – scrive Dostoevkij – sa di essere un detenuto, un reietto, e sa qual è il suo posto dinnanzi ai superiori; ma non ci sono marchi, non ci sono ceppi che lo possono costringere a dimenticare che è un uomo. E siccome è effettivamente un uomo, allora, di conseguenza, bisogna anche rivolgersi a lui in modo umano».

Oltre a indagare la dimensione del detenuto, l’Autore muove anche una ferma critica al carcere-istituzione, totalmente disinteressato alla correzione del reo e finalizzato a svolgere una funzione retributiva – non troppo diversa dall’occhio per occhio – e di tutela della tranquillità dei consociati. Tale soluzione, però, tradisce una notevole falla, prontamente denunciata dal Dostoevskij. Un siffatto sistema punitivo, infatti, è buono solo ad alimentare la rabbia e la cattiveria del detenuto, creando un pericoloso vortice vizioso. Anche perché «il delinquente, che s’è ribellato alla società, la odia e quasi sempre ritiene di essere nel giusto, mentre la società è colpevole. Per di più ne ha già sopportato la punizione, e grazie a ciò quasi si ritiene purificato, in pari con i conti».

Il tema del carcere si rinviene anche tra le pagine del celeberrimo Delitto e castigo (1865), come pare suggerire lo stesso titolo. In realtà, l’associazione sarebbe ancor più immediata se solo la traduzione fosse stata fedele all’originale, ossia “Delitto e pena”. Forse non tutti sanno che tale errore, oramai frutto di una tradizione consolidata, è imputabile alla primissima traduzione italiana, la quale non fu di prima mano, ma mediata da quella francese, nella quale il termine russo nakazànie venne tradotto con châtiment, che in italiano significato appunto “castigo” e non “pena”. Castigo che, a ben vedere, non esula affatto dal tema e anzi discende dalla pena comminata in vista di una redenzione del colpevole.

Sparsi qua e là nell’opera dostoevskiana si possono dunque cogliere preziosissimi spunti di riforma. «La pena giuridica comminata per un delitto – scrive Dostoevskij in una lettera a M. Katkov nel 1865 – spaventa il delinquente assai meno di quanto pensino i legislatori, perché è lui stesso che la vuole». Inutile girarci tanto attorno dunque: il sistema va ripensato, possibilmente in un’ottica di risocializzazione e reintegrazione del reo. Ieri come oggi.

«Questi inetti esecutori della legge non capiscono decisamente, e non sono nemmeno in condizione di capire, che la sua applicazione alla lettera, priva di un senso, priva della comprensione del suo spirito, porta dritta ai disordini, né mai ha portato ad altro».

Fëdor Dostoevskij, Memorie da una casa di morti